Giallo erba – Milano 1843

Nota introduttiva dell’autore a “Giallo erba – Milano 1843”

“Giallo erba – Milano 1843” è il secondo della trilogia di gialli storici ambientati nella Milano risorgimentale che ho intrapreso a scrivere. Il commissario Ulisse Zecchini, promosso “Superiore” tra il 1835 e il 1836, si trova a dover affrontare due omicidi palesemente tra loro connessi. Per una serie di circostanze, potrà ancora avvalersi dell’aiuto di Carlo Andreis, giunto al grado di “Ufficiale Perlustratore”. Zecchini si muove tra nobiltà, borghesia, ceti medi e popolari nella Milano che in quegli anni stava prosperando. Ho voluto insistere (spero non troppo) sull’aspetto economico del periodo, perché sono convinto che uno dei motivi per cui si è fatta l’Italia è proprio questo: consentire di avere un mercato sufficientemente ampio per le industrie che altrimenti non si sarebbero sviluppate in contesti regionali asfittici o, peggio, sostenuti dallo Stato.

Il Regno Lombardo-Veneto era economicamente florido: il suo bilancio produceva un importante avanzo; nel 1823 esso ammontava a trentacinque milioni di lire italiane e raggiunse i sessantasei milioni nel 1848. Nonostante un gravoso carico fiscale, l’agricoltura (soprattutto basata su orzo, segale, frumento e riso), la bachicoltura e le industrie (specie la tessile e la meccanica) prosperavano. Motori di questa crescita erano certamente la disponibilità di capitale e imprenditori stranieri ed italiani che operavano in un tessuto sociale propenso al “darsi da fare”. Evidenze di questo contesto positivo si hanno proprio nel 1843 in due occasioni ricordate nel romanzo: l’inaugurazione dei lavori della Stazione della ferrovia Ferdinandea1 e dei lavori per lo stabilimento di produzione del “gaz” fuori di porta Lodovica.

Dal punto di vista politico, il 1843 è caratterizzato invece dalla scarsa azione patriottica, che si esprime soltanto nella diffusione di materiale a stampa di origine mazziniana. A settembre esce a Bruxelles il famoso “Del primato civile e morale degli italiani” di Vincenzo Gioberti, che proponeva la formazione di una federazione degli Stati italiani (quelli che chiamiamo “preunitari”) con a capo il Papa. Nonostante essa avesse il duplice vantaggio di non dover rimuovere i regnanti e di togliere terra sotto ai piedi a coloro che volevano giungere all’unità in modo violento (cioè con la guerra), essa non riscosse un gran successo. Solo più avanti, con la salita al soglio pontificio di Pio IX, con i suoi primi atti considerati liberali e successivamente con l’invio di un corpo di spedizione al fianco di Carlo Alberto durante la Prima Guerra di Indipendenza, la proposta avrebbe potuto essere in qualche modo rivalutata; ma oramai il Piemonte, con il suo Re Vittorio Emanuele II, che aveva mantenuto lo Statuto albertino, e l’astro nascente di Cavour, andava costituendosi come momento di aggregazione di quasi tutti i patrioti, cui non disdegnavano di avvicinarsi nemmeno i repubblicani mazziniani.

Anche per questo romanzo non si possono non intravvedere parallelismi con l’odierna vicenda italiana ed europea, almeno per ciò che riguarda il tema del “mercato” più ampio. Quanto alla proposta di Gioberti, nemmeno all’epoca ci voleva un grande senso politico per considerarla come minimo astratta. D’altronde anche ai tempi nostri le proposte bislacche si moltiplicano.
La vicenda si snoda in questo contesto; tra pochi anni in tutta Europa si scatenerà un “48” e Milano scriverà una delle pagine più belle del Risorgimento.
Ma questa è un’altra storia.

Buona lettura ai miei pochissimi lettori!

Paolo Saino

Il commento di Giovanni Carosotti

Postfazione
Il nuovo romanzo di Paolo Saino, ambientato come i prece-denti in epoca risorgimentale, è il secondo di una serie: identico il protagonista del romanzo precedente, il commissario Zecchini, alla prova con una nuova indagine; i tratti psicologici del personaggio già conosciuti dal lettore, così come consueta risulta l’ambientazione milanese. Una scelta, quella di creare un personaggio che è facile immaginare protagonista di future avventure, di carattere eminentemente letterario. Tale conclusione rischia però di essere un’ingenua rassicurazione interpretativa, poiché stride con la personalità dell’Autore, scrittore sì, ma a partire da un’irrinunciabile passione per la ricerca storica, senza la quale non sarebbe probabilmente neanche sorta in lui l’esigenza di esprimersi per via letteraria. Niente di più lontano dai propositi di Saino è infatti usare la storia come esercizio virtuosistico per rendere maggiormente coinvolgente una trama. E rimaniamo convinti che, attraverso i suoi racconti, egli voglia proprio indurci a riflettere sul Risorgimento e, contemporaneamente, sull’identità italiana, come ancora si rispecchia nella società complessa dei nostri tempi e nell’attuale drammatica fase storico-politica. Eppure la Storia sembrerebbe in Giallo erba rivestire un ruolo marginale, forse per un prevedibile esaurimento degli argomenti disponibili, ma anche per la scelta di una maggiore concentrazione sia dei luoghi sia dell’orizzonte temporale. Tanto più che la data in cui si svolge la vicenda, il 1843, non sembra particolarmente significativa. Invero, nelle brevi note introduttive, Saino ci informa riguardo due eventi riferibili a quell’anno: i lavori della Stazione della ferrovia Ferdinandea da una parte, e la pubblicazione del Primato morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti dall’altra. Ma potremmo anche citare la prima rappresentazione presso il Teatro alla Scala de I Lombardi alla prima Crociata di Giuseppe Verdi, con cui si aprono le pagine del romanzo. Non incontriamo al-tri fatti storici eclatanti; i riferimenti all’agitazione politica paiono avere una semplice funzione strumentale, perché svia-no le indagini dall’effettivo movente, e permettono di percepire un clima politico e culturale –vissuto intensamente nella quotidianità di chi occupava funzioni istituzionali- in cui la minaccia della “sovversione” e la tensione indipendentista coinvolgeva anche le personalità agiate che nulla avevano da chiedere in merito alle riforme sociali. E invece, la Storia è ben presente anche in quest’ultima opera; i personaggi ancora una volta, com’era accaduto in Giallo carbone, incarnano a loro modo una determinata maniera di esprimere la coscienza e il carattere nazionali, e immediatamente implicano uno sforzo interpretativo di carattere storiografico senza il quale la trama si ridurrebbe a semplice esercizio di stile.

Abbiamo già fatto riferimento alla continua tensione, al clima di sospetto e censura che si respirava nella società milanese del tempo. Tale impressione di un equilibrio sociale apparente, sempre sul punto di rompersi, è funzionale a comunicare una delle principali convinzioni storiografiche di Saino: il Risorgimento costituisce un processo unitario, che dai vacui e ingenui sforzi dei carbonari (Giallo carbone) prosegue con continuità in proposte politiche pur divergenti, a prima vista in aperta contraddizione con quanto le ha appena precedute, ma che trovano legittimazione in quell’aspirazione all’unità nazionale che inevitabilmente percorreva l’intera penisola. Anche nei periodi apparentemente di maggiore tranquillità, infatti, si verificano trasformazioni strutturali decisive e vengono elaborate riflessioni politiche destinate a inverarsi negli eventi insurrezionali degli anni successivi. Ed è qui che entrano in gioco sia Gioberti sia Mazzini. Le due personalità sono spesso richiamate attraverso periodici inserti, che sembrano spezzare la trama del racconto ma che invece ne spiegano le dinamiche, e rivelano la complessa personalità del commissario Zecchini.

Mazzini e Gioberti, i cui programmi politici saranno sostanzialmente sconfitti dall’azione cavouriana, sono coloro che teorizzano e avvertono in profondità –ben più del realismo di Cavour stesso- la presenza di una coscienza nazionale diffusa e la necessità di alimentarla per legittimare in modo permanente il processo unitario. Poco conta –da questo punto di vista- che l’uno la individuasse nella fede cattolica diffusa e l’altro in una religiosità immanentistica di derivazione romantica; sia le azioni della Giovine Italia, che tanto preoccupano il commissario Zecchini (il quale ne coglie la novità sul piano del coinvolgimento popolare), sia la pubblicazione del Primato, testimoniano di una tensione che conoscerà ancora concrete (e all’epoca apparentemente irrimediabili) sconfitte, ma destinata a non spegnersi e a raggiungere i propri obiettivi. Se ne accorge proprio il commissario, che è ben lontano dal rappresentare una sorta di ottuso esecutore, che non si rende conto di agire contro gli interessi del proprio popolo; si tratta in realtà di un personaggio tragico (un po’ come Antonio Salviotti, il celebre accusatore di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli) e, a suo modo, dotato di una contraddittoria moralità, tra la fedeltà alle istituzioni e alla legalità e le tensioni della storia che percepisce intorno a lui. Durante la lettura costante dei documenti sovversivi, o nei dialoghi con l’immancabile Guenzati, egli non riesce a nascondere la propria ammirazione per coloro i quali combatte, e anche a percepire l’inevitabile riuscita dei loro ideali. Certo, nel romanzo la capacità di Mazzini, il quale «desidera entrare nel cuore del popolo», viene contrapposta al velleitarismo di Gioberti; pure il suo richiamarsi al cattolicesimo rappresentava un tentativo di comunicare alle coscienze degli uomini, al fine di coinvol-gere lo stesso ceto contadino, colpevolmente ignorato da Mazzini, nella nuova comunità nazionale da costruire. In ogni caso, sulla base dei tre romanzi sino a oggi pubblicati, mi sento di affermare che Mazzini rimane il vero nodo irrisolto per Saino, nel senso che, tra le figure del Risorgimento italiano, è quella il cui pensiero ha continuato ad agire in profondità nella storia nazionale e tutt’ora non ha esaurito la propria forza propositiva. La figura del fondatore della Giovine Italia appariva ne Gli ultimi patrioti come uno sconfitto, travolto dal realismo cavouriano; vincente invece nel secondo romanzo, in cui il decadere sempre più esplicito dell’organizzazione carbonara lasciava il posto all’appello diretto al popolo dei mazziniani; in Giallo erba Mazzini sembra la figura centrale e risolutiva dell’intero Risorgimento, proprio perché teso tra il velleitarismo di un’azione armata destinata a rivelarsi purò spontaneismo, e una profondità di pensiero politico che avrebbe innervato l’intera storia nazionale successiva.

Lo spessore storico di Giallo erba sta nel mostrare quelle forze storiche, di carattere però sovra individuale, che spingevano inevitabilmente per la soluzione unitaria. Ed erano le forze della modernizzazione, economica e politica, che provenivano dall’Europa e che dimostrano come l’Italia poteva nascere e acquistare coscienza di sé solo nel contesto europeo, e non certo in un frazionamento identitario che le banalità delle considerazioni neo borboniche pretenderebbero ancora oggi di sostenere. Era innanzitutto una spinta all’espansione economica che rendeva quanto meno inattuale e irrealistica sia la condizione di dominio austriaco (che pure Saino riconosce avere assicurato al Nord Italia un adeguato benessere), sia la frammentazione permanente in piccoli Stati regionali. E, in questo senso, il confronto tra Mazzini e Gioberti diventa in qualche modo illuminante; lo Stato nazionale italiano non poteva che essere realizzato da quella borghesia produttiva, pienamente consapevole e inserita nei giochi economici europei, ben rappresentata (da Saino qui in modo esemplare) nella società lombarda; e non poteva se non realizzarsi a partire da una guida politica, come il Piemonte cavouriano, che aveva compreso la necessità di una modernizzazione europea del proprio territorio. L’unità avverrà quindi secondo un principio, spirituale e ideologico insieme, mirante al progresso, che non poteva che escludere, almeno nella fase attuativa, le masse contadine. L’errore successivo è stato quello di non averle coinvolte nella successiva edificazione di una coscienza nazionale condivisa.

C’è però un’altra considerazione, meno agiografica, che viene sollecitata dalla lettura di queste pagine. I protagonisti di Giallo erba rappresentano sì un processo produttivo che ha innervato la storia d’Italia permettendole di superare il particolarismo interno, ma anche una tendenza corruttiva, rappresentata dalle basse motivazioni che li spingono all’azione criminosa; una dimensione individualistica fatalmente in contrasto con la prima – pur se con essa coesistente – che attraverserà senza sostanzialmente modificarsi tutte le epoche storiche dell’Italia unita. Mi sembra il medesimo l’auspicio che, sia pure tra le righe, Saino intende lanciare nei suoi tre romanzi, una speranza per il futuro del proprio paese, che per lui dovrebbe essere condiviso da ogni «patriota», nel senso che la parola rivestiva nel primo romanzo: che si possa definitivamente sciogliere, per quanto riguarda la società italiana, questo micidiale in-treccio tra slancio etico e patriottico e mantenimento di un individualismo regressivo che ha frenato sino ad ora una definitiva emancipazione sociale e politica.

Prof. Giovanni Carosotti
Docente di Storia e Filosofia al Liceo Virgilio di Milano

Il commento di Giulio Alberoni

L’introduzione di Giulio

Quando a Milano si parlava in dialetto, e ci si muoveva in carrozza. Quando gli uomini erano prudenti nelle espressioni, decisi nelle iniziative, riguardosi nei rapporti sociali. L’eco, il ricordo di un mondo che forse abbiamo visto, forse possiamo immaginare, certo ci suona familiare. E, a differenza delle situazioni contemporanee, criminali decisi e audaci, ma velati dal comportamento irreprensibile. Un viaggio in una situazione tragica, avvincente, emozionante, e in un universo che ricalca e ricorda l’immaginario che abbiamo delle nostre nonne, dei nostri bisavoli, di quel passato serio, composto, vivace, nascosto, deciso, scandito nei tempi e nei riflessi criminali, che tutti noi possiamo immaginare, pensando a Milano come luogo del crimine. Un crimine comune, prima che la mano nera, o la mala trasformassero, con automobili, mitra, ed il mondo moderno, un universo che – quanto a criminalità – non aveva nulla da invidiare a moltissime situazioni contemporanee. Velocità di azioni, improvvisi mutamenti di agire e di scena, donne dall’antica saggezza o dalle modernissime grazie usate come strumento di potere e conoscenza. Non manca nulla a questo lavoro interessante, ma soprattutto, avvincente. Neanche le forze dell’ordine delineate con ritratti precisi e suadenti, e le giovani leve timorose e insieme audaci e intuitive. Da leggere d’un fiato, e poi riguardare per ritrovare Milano.

Giulio Alberoni

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